Francesco Jodice dagli anni Novanta ad oggi

A cura di Davide Tatti

Francesco Jodice, con la pubblicazione del volume The Complete Works, ripercorre dalla metà degli anni Novanta a oggi il suo lavoro di fotografo e intellettuale che bilancia l’attenzione verso i temi sociali e culturali da una parte, dall’altra gli aspetti formali dei medium adoperati (fotografia, installazione, video, fumetto, videogioco), con il termine medio costituito dal pubblico che intende coinvolgere. Per quanto la fotografia e le pratiche visive di Jodice possano rientrare nell’ambito di un’estetica realista, anche quando fa un montaggio di opere altrui o ricuce frammenti di fantascienza, Jodice mostra i limiti della veridicità, la tendenza insita alla manipolazione che si palesa anche nelle forme più descrittive dell’immagine. Jodice usa, abbandona e riprende i vari medium, senza subirne però la fascinazione, anzi ne prende una distanza critica, mostrando come le rappresentazioni dei fatti, possano portare anche a delle distorsioni conoscitive.  Con l’edizione di Complete Works, si evidenzia come Jodice abbia preferito un approccio multidisciplinare e collaborativo, ai lavori realizzati in prima persona affianca il montaggio, tanto che il ruolo autoriale si assottiglia a favore di quello collettivo e del pubblico coinvolto. All’artista spetta perciò una funzione di raccordo, la capacità di stabilire connessioni nella triangolazione tra i temi, i medium e l’attribuzione dei significati. Per mantenere una sorta di parallelismo tra edizione a stampa e installazione multimediale, il volume Complete works è strutturato in sistemi di sequenze, percorribili e leggibili a colpo d’occhio come in una mostra, dove i testi paralleli alle immagini insieme ricostruiscono il progetto intellettuale a cui appartengono.  Gli anni Novanta, che per Jodice hanno segnato il passaggio dagli studi in architettura alla professione di fotografo, sono considerabili un momento di recupero della fotografia documentaria. Riconoscendo la valenza etica ed estetica del “documento”, si sposta l’obiettivo delle pratiche e delle ricerche in fotografia, come suggerisce William Guerrieri, tanto da «considerare il fotografico come indagine e non come rappresentazione, così come la scrittura è interrogazione prima, molto prima, di essere discorso o romanzo»1. Nella seconda metà degli anni Novanta si consolida l’interesse per i luoghi omogenei e privi di identità specifica, rinominati come non-luoghi, in contrapposizione al paesaggio connotato storicamente. Questo focus sulla standardizzazione diviene «l’inevitabile punto di partenza per l’analisi dei fenomeni della globalizzazione, che determineranno i grandi processi di trasformazione e di omologazione dei territori»2. A questo rinnovamento aderiscono autori come Olivo Barbieri, Paola De Pietri, Paola Di Bello, Vincenzo Castella, Marina Ballo Charmet, Francesco Jodice, Walter Niedermayr, Giovanni Zaffagnini, Marco Zanta e lo stesso William Guerrieri; il quale riconosce a Francesco Jodice la capacità di individuare il «senso di disappartenenza che le persone vivono nelle grandi aree urbane, come nel progetto Cartoline dagli altri spazi del 1998. Se i processi di “derealizzazione”, che accompagnano l’esperienza quotidiana di chi vive nelle grandi metropoli, sono già al centro dell’interesse di questo autore, (…) non vi è dubbio che in questo caso la fotografia assuma un ruolo diverso, meno incerta nella sua funzione di definire una trasformazione su scala planetaria»3. Le nuove pratiche, provenienti dalla coscienza della globalizzazione, vennero messe appunto, tra gli altri, dal Multyplicity agenzia di ricerca per il territorio, a cui parteciparono nei primi anni del 2000 architetti tra cui Stefano Boeri, ingegneri, cartografi, sociologi, fotografi, tra cui Francesco Jodice. Malgrado l’orientamento tecnico l’agenzia fu inserita anche in Documenta 11 nel 2002: «In quegli anni con Multiplicity venivamo invitati con una certa frequenza nello scenario dell’arte contemporanea, eppure eravamo sostanzialmente estranei a quel mondo»4. Il collettivo assunse come tratto distintivo la perdita di autorialità tradizionale, la fotografia venne immessa in flussi continui di informazioni e immagini, sul modello di un ideale atlante eclettico multimediale.

Francesco Jodice. Cartoline da altri spazi. 1998

Durante la prima presentazione italiana di The Complete Works, avvenuta alla Triennale di Milano, interviene Stefano Boeri, che avendo condiviso varie esperienze con Francesco Jodice, definisce la sua fotografia come un’attività conoscitiva fondata sulla raccolta di indizi: «questa indiziaria è una delle grandi capacità di Francesco, una capacità di lavorare insieme nel confine tra visibile e invisibile, (…). C’è sempre un invito ad andare oltre quello che semplicemente si rappresenta nell’immagine bidimensionale, si danno sempre degli indizi». Ricordando un’esperienza didattica avvenuta a Tokio nel 2002, Boeri traccia una definizione dello stile frontale ma ambiguo in Jodice: «Francesco fu capace allora di lavorare fra gli spazi vuoti tra le case, tra le cose e tra i corpi, e di trattare i corpi come tratta gli edifici, e di trattare gli edifici come tratta gli spazi vuoti, di dare una fortissima individualità ai soggetti che incornicia nel capo visivo»5.

Nel dibattito, Marco Scotini riprende l’argomento del saggio inserito nel volume: L’immagine probatoria e il suo doppio. Scotini sposta la produzione di Franceso Jodice oltre le ricerche fotografiche sui contesti urbani e il paesaggio antropizzato, per collocarla in un ambito più pertinente all’arte contemporanea. Con un cambiamento epistemologico Jodice sottrae alla fotografia l’atto di comprovare la realtà, per renderla invece produttrice di nuove realtà virtuali, credute tali perché verosimili. «Rivedendo tutto il lavoro di Francesco, queste tracce ci sono fin da Cartoline da altri spazi del 1998, (…) che si aprono con le figure fantasmatiche dentro la piazza del Centro Direzionale di Napoli: l’apparizione delle gemelline da Shining di Kubrik (…). Già queste fotografie introducono un perturbante che Francesco non ha mai perso, c’è sempre una foto dentro la foto. (…) La fotografia che non è più probatoria della realtà, ma è produttrice di realtà (…). Le immagini dei luoghi sono già un doppio, qualcosa di non familiare (…) Francesco, non faceva altro che costruire un artificio su quella realtà, che presumevamo fosse registrata da lui, come quando Walter Benjamin fece dire a Bertolt Brecht che le immagini delle officine Krupp non dicono niente delle stesse; quindi, c’è bisogno di un artificio che allora Brecht vede nel fotomontaggio, nel surrealismo».

L’intervento di Francesco Zanot verte sulla molteplicità delle forme adoperate da Jodice e sulla capacità di gestire l’accumulazione del materiale d’archivio: «La fotografia nel tuo lavoro è costituita da una sorta di deposito, di precipitato, di una serie di azioni che si sono svolte (…) e fanno parte del processo ideativo (…). L’accumulazione serve per parlare di fenomeni collettivi, per farlo bisogna gestire la quantità, la formazione di una massa (…) L’accumulazione mette in tensione ordine e disordine (…)».

Francesco Jodice ripercorre i presupposti fondativi dagli anni Novanta, che consistevano nell’abbandono dell’approccio mono-disciplinare a favore di quello multidisciplinare: «sentivo il bisogno di confrontarmi con l’eredità della scuola del paesaggio italiano, ma stavano intervenendo una serie di metamorfosi culturali, sociali, geopolitiche, religiose, tanto che nel mio lavoro la fotografia non poteva essere a sé stante, doveva sporcarsi. Da questo punto di vista la forza di Multiplicity, che noi chiamavamo agenzia di investigazioni territoriali, era un gioco a cui partecipavano figure di alto profilo, pronte a mettere in discussione i propri strumenti, perché quegli strumenti rinchiusi nel proprio ambito, non riuscivano più a raccogliere le tracce del territorio (…). Già da quando inizio a lavorare nel 1996, non era più possibile avere fede nei codici; infatti, chiunque di quella generazione sia rimasto fedele all’arte, all’architettura, alla fotografia, abbia fatto grande fatica, chi invece ha creato una costellazione complessa di mescolanze, se ne sia avvantaggiato».

Francesco Jodice. Hong Kong T69, 2012, pagine interne da The Complete Works, 2021

 

Un tentativo di ricostruzione antologica viene fatto da Joice già nel 2016 con una mostra presso Camera di Torino da titolo “Panorama”, il termine fa riferimento, come dice Eleonora Roaro6 «alla potenzialità onnicomprensiva del vedere, dell’osservazione, e non tanto al soggetto dell’immagine. Non è ciò che osserviamo ma tutte le potenzialità cognitive, il possibile raggiungimento di un certo grado di consapevolezza con una visione totale e corale, che si completa come un mosaico». Lo spostamento di asse che Jodice persegue, gli permette di accantonare l’obiettivo del prodotto finale, per concentrarsi invece sul processo conoscitivo e ideativo. L’uso dei materiali che non sono di propria paternità o realizzati con dei collettivi, favorisce una pratica curatoriale, a cui interessa più l’ampiezza del tema che l’impronta soggettiva.  

Un tema ampio e a cui Jodice ha dato interesse nel lungo periodo è quello del declino della cultura occidentale, confluito poi nel progetto West, avviato nel 2014 di cui è prevista una conclusione nel 2023. Il progetto ripercorre «il sorgere e il declino del secolo americano, indagando le origini della crisi attuale del modello liberista e più in generale dell’Occidente, in un arco di tempo compreso tra l’inizio della Gold Rush nel 1848, e il fallimento della Lehman Brothers nel 2008. West si compone di tre lunghi viaggi attraverso alcuni degli stati dove ebbe luogo la corsa all’oro».7

Francesco Jodice. WEST, 2014

Il modello del grande accentramento abitativo e ricettivo, inadeguato alle proprie funzioni, è l’argomento affrontato da Jodice nel progetto Falansterio, esposto a Palazzo Barberini di Roma nel 2021. La sequenza di immagini è realizzata, durante il lockdown del 2020, da fotografie satellitari, che Jodice ha acquisito e rielaborato. Compare il Colosseo, seguito da complessi abitativi di dimensioni molto estese, come il Corviale di Roma, il Quadrilatero di Trieste, le Vele di Napoli, il Gallaratese di Milano e lo ZEN di Palermo.

La crisi delle democrazie e del concetto di progresso storico è un argomento che Jodice inserisce nel film Rivoluzioni, esposto da febbraio di quest’anno. Le immagini che si alternano, provenienti da un montaggio di materiali d’archivio, vanno da quelle di galassie a pellicole anni ’30 e ’80. Jodice propone una sospensione del giudizio sul materiale audiovisivo prodotto dalla nostra cultura, essendo giunti ad un’assenza di aspettative per il futuro, proprio dopo la condivisione delle conoscenze e le politiche democratiche. Come dice Jodice «era necessario per suggerire che la Storia è in una fase di stallo, se non terminata, e che tutto ciò che ci accade è un loop, una replica di brani di vite già vissute tra fiction e realtà». 8

Francesco Jodice. Rivoluzioni, montaggio video, 2022

La formazione della coscienza civile e politica in un contesto urbano, è un altro nucleo progettuale che ha accompagnato Jodice, anche recentemente nel 2019. In un ambiente pubblico è stata realizzata l’installazione Qui, che consisteva in una sequenza fotografica, posta intorno al cantiere sul lato est della stazione Rogoredo. La fotografia è un ritratto degli abitanti del quartiere, chiamati a partecipare attivamente. «Abbiamo ritratto delle persone invitandole poi a vedersi a riscoprirsi ritratti all’interno della mostra il giorno dell’inaugurazione. Abbiamo coinvolto piccole entità locali, (…) collaborato con un liceo di quartiere (…) e selezionato un gruppo di ragazzi che sono diventati nostri assistenti, di fatto hanno ragionato con noi (…) su che cosa vuol dire oggi approcciare un paesaggio sociale, come incontrarlo, come ricombinare gli elementi dell’osservazione, in parallelo agli elementi di trasformazione di una società. Tutto questo è diventato un evento collaborativo, se vogliamo anche collusivo (…). Non avrei nessun interesse a guardare l’architettura se non in funzione della riappropriazione da parte della comunità, per cui per me lo spazio non è mai solo luogo fisico, ma uno spazio dell’uso e anche dell’abuso (…) Per me la pratica dell’arte come poetica civile è da un lato la descrizione di alcuni mutamenti, dall’atro l’intenzione che il racconto dei mutamenti coinvolga lo spettatore, coinvolga anche civilmente, politicamente nel senso alto del termine, magari anche in modo conflittuale»9. La pratica delle arti visive, che non si esaurisce nell’atto produttivo, assume con Jodice una valenza anche pedagogica, perché cerca di orientare lo sguardo del pubblico ad una maggiore consapevolezza sociale e politica.

Francesco Jodice. QUI, Black Hole, Via Luigi Russolo. 2019

Quartiere Santa Giulia giugno 2022. Tre anni dopo l’installazione di Francesco Jodice. Foto: Davide Tatti

Francesco Jodice dagli anni Novanta si è dimostrato attento osservatore dei fenomeni sociali su scala globale, ma negli ultimi tre anni le spinte alla globalizzazione economica danno segnali di decrescita, si consolidano fenomeni di de-globalizzazione, che tendono a far diventare regionali le politiche e le economie, anche a causa della pandemia da Covid 19 e ora con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Il principio «della massima convenienza», specifico del sistema globale, «viene sostituito da quello dell’autosufficienza», come spiega Maurizio Ricci10. Il sistema delle comunicazioni ha reagito alle due forze opposte, collocando in digitale una parte sempre maggiore delle esperienze dirette, tanto che l’abitudine alle pratiche sociali e al lavoro con strumenti digitali e globali, ci porta a ricercare la globalizzazione anche laddove la realtà sociale e politica si restringe in ambiti più regionali. Francesco Jodice ha calato parte dei progetti in uno spazio virtuale, come nella “visita guidata” ad un videogioco dal titolo Happy Together del giugno 2020; individua così nei rapporti interpersonali e con gli spazi una preponderante modalità ludica, densa di attrazioni e manipolativa, che gratifica nell’immediato, ma pone l’ambito reale come un contesto che si impoverisce di significati.

14 giugno 2022

Francesco Jodice e The Cool Couple. HAPPY TOGETHER! video, 2020

Note:

1 Wiliam Guerrieri, L’attualità del documentario. In: Luogo e identità nella fotografia italiana contemporanea, a cura di Roberta Valtorta. Torino, Einaudi 2013; pag. 193 – 256

2 Wiliam Guerrieri, ibidem, pag. 204

3 Wiliam Guerrieri, ibidem, pag. 212

4 Smentire la storiografia. Una conversazione con Stefano Boeri di Cristiano Seganfreddo e Gea Politi, FlashArt, 15 giugno 2020

5 Francesco Jodice, The Complite Works, Silvana Editoriale, 2021. Presentazione del Volume presso Triennale di Milano, 26 aprile 2022. Interventi di Stefano Boeri, Presidente di Triennale Milano; Francesco Jodice, artista; Marco Scotini, curatore; Francesco Zanot, curatore.

6 Eleonora Roaro. Research For Knowledge / Intervista a Francesco Jodice, Doppiozero, 22 luglio 2016

7 WEST, di Francesco Jodice, A cura di Matteo Balduzzi e Francesco Zanot. Museo di fotografia contemporanea,

comunicato stampa, 17 febbraio 2022.

8 Francesco Jodice. Rivoluzioni. Video installazione. Base Progetti per l’arte. Firenze, 19 febbraio 2022, comunicato stampa.

9  Video intervista a Francesco Jodice, Open House Milano, pubblicato il 4 ottobre 2021, Youtube.

10 Maurizio Ricci, Il tempo della deglobalizzazione, in: Il diario del lavoro, 30 maggio 2022.

Start typing and press Enter to search